FILIPPO
LAVORGNA
LEGGENDARIO
FONDATORE DI SAN LORENZELLO
Corre l’anno 864 d.C.
Sawda, il condottiero saraceno, volgarizzato Seodan, piomba con le sue
orde, avide di preda, sulla fiorentissima città di Telese, mettendola
a ferro e fuoco. I superstiti alla strage, trascinandosi dietro gli utensili
più necessari, cercano scampo sui monti. Risalite le aspre colline,
un gruppo di questi profughi sbarca nella piana di Cancello-Serre.
Al loro sguardo, di fronte, appare il Monterbano, vellutato di erbe ed
irradiato dal sole di mezzogiorno: allarga le sue braccia, come madre
affettuosa, ad Est verso Montecoppo, ad Ovest, verso Montacero. Le sue
falde, correndo a forma di semicerchio, sono limitate dalle fresche acque
del Titerno che, appena sbucate selvagge e immacolate dalle altezze nevose
del Mutria, rallentano la frenetica corsa, quasi beate fra tanto verde.
Tra i profughi che ascendono il Monterbano è la famiglia Lavorgna,
che trova comodo rifugio nella grotta di Futa. Una famiglia discretamente
numerosa: il padre Andrea, la moglie Teresa, i figli Enrico, Antonio,
Severo, Filippo, Elodìa, Rosita. Al cibo, costituito da caccia
e da erbe, provvede soprattutto Filippo, l’ultimo nato, ma il più
generoso. Alto, dai lineamenti gentili, dai capelli corti e ricciuti,
cova negli occhi neri come il carbone una grande malinconia.
Siede, talvolta al tramonto, davanti la grotta e, quasi presago del destino
che gli incombe, fissa la pianura sottostante delimitata dalle colline
festanti di vigne ed olivi correnti a semicerchio tra Monte Coppo e Montacero.
Una mattina Elodìa lo invita a scendere giù nella valle.
A la Cupa è un gruppo di zingari al bivacco. Hanno sospeso la caldaia
a due pioli incrociati. Un uomo tarchiato vi alimenta sotto il fuoco e
la moglie, discinta e scalza, manovra il mestolo.
Poco lontano, all’ombra di un’annosa quercia, un asino rosicchia,
beato, un cardo, mentre una ragazza bruna e dagli occhi di fuoco, segue
accovacciata i fratellini che giocano rincorrendosi e poi capitombolando
sul verde tappeto.
La zingara, all’arrivo dei due fratelli, si alza e si avvicina a
Filippo, convincendolo, con quella petulanza che ancora oggi contraddistingue
gli zingari, a farsi divinare.
“Nobili sono i tuoi natali – sentenzia la zingara, assumendo
il tono profetico d’una antica sacerdotessa – belli i tuoi
lineamenti, forte il tuo braccio e generosi il tuo cuore; hai fuggito
la patria e ti sanguina l’anima; i tuoi dolori non sono finiti...
però risplenderà su te la stella, due stelle, due occhi
di profuga sventurata come te, ma dolce come il miele e bella come il
sole. Sarai con lei il fondatore di una città e il tuo nome rimarrà
immortale”.
Il giovane ride divertito e, fatta scivolare qualche moneta nelle mani
della zingara, prende la via del ritorno, mentre Elodìa, dapprima
scherzando, poi con convinzione, gli va augurando ogni migliore fortuna.
Passarono i giorni e venne un meriggio d’autunno.
Filippo ed i fratelli erano tornati più lieti del solito: avevano
ucciso una lepre e raccolto funghi in abbondanza. Il desinare fu approntato
e tutti si accingevano a consumarlo quando giunse alla grotta una giovane
donna che, scarmigliata e piangente, chiedeva aiuto per il padre colto
da improvviso malore. Filippo seguì Rosita al rifugio dove, però,
trovò il vecchio Aniceto già cadavere.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando Filippo fece ritorno alla sua grotta:
visione terrificante! La sua famiglia era un mucchio di cadaveri scomposti
ed orrendi a vedersi. L’azione venefica dei funghi era stata immediata
e fatale. Il giovane guardò dapprima incredulo quei volti che recavano
ancora i segni della spasmodica agonia, poi si abbandonò alle lacrime
e alle grida disperate. Accorse fra gli altri il vescovo Palerio che pregò
e benedisse i cadaveri. La ragazza, provvidenzialmente, lo aveva salvato...
Un pomeriggio, verso il tramonto, Filippo, che sedeva come un cane frustato
davanti alla grotta, avvertì un passo delicato. Era Rosita che,
rimasta anch’essa sola, viveva ospite di una famiglia amica.
Filippo sobbalzò; non l’aveva rivista da allora, ma la sua
immagine, entrata nel cuore in un momento di dolore, non si era più
cancellata, anzi in quei giorni bui gli era apparsa sempre più
luminosa. Era riconoscenza? Era amore? Non lo sapeva o forse non voleva
saperlo.
Ma ora era lì più vera che mai, seduta accanto a lui sotto
un cielo trapunto di stelle. Parlarono a lungo, spesso guardandosi negli
occhi.
Frattanto calava la sera e la fanciulla mostrava già di alzarsi,
quando Filippo la trattenne per il braccio. Ora come non mai il vaticinio
della zingara gli appariva chiaro: era lei la fanciulla del suo destino.
“Rosita, vuoi unire per sempre la tua vita alla mia?” le disse
Filippo, singhiozzando le parole e col volto imporporato.
Un caldo fiotto di sangue colorì anche le guance di Rosita, mentre
i suoi occhi celesti fissavano compiaciuti ed ansiosi l’uomo senza
parlare. Filippo l’attirò a sé e la baciò:
una stella filante s’accese sulle loro teste e, tracciando in cielo
una scia di fuoco, andò a spegnersi nella pianura sottostante.
Era la sera di San Lorenzo!
“Ecco la nostra stella – disse Filippo – fonderemo per
noi e per tanti altri nostri compagni di sventura una nuova dimora”.
“.... così nacque nel tempo San Lorenzello, per virtù
d’un mito”:
Tratto dal volume di Don
Nicola Vigliotti: “San Lorenzello e la valle del Titerno”
edito dalla Fondazione Massone-Cerza di San Lorenzello. (Terza edizione
– Luglio 1998. Prima edizione: 1969)
Cfr. anche:
G. Aulino – “Bozzetti storici” – Iaselli, Caserta,
1889
Maria Luisa d’Aquino: “San Lorenzello, un dolce nome”
– Ente culturale Schola Cantorum “San Lorenzo M.” –
San Lorenzello, 1988
Chronica Santi Benedicti Casinensis – Ed. G: Waitz in M.G.H. –
Hannover, 1878
Angelo Michele Iannacchino – “Storia di Telesia Sua diocesi
e Pastori” – Ed. Don Bosco, Telese, 1993.
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